Siamo in taxi in una strada buia in mezzo all’incantevole natura nepalese. Dopo vari autostop non siamo riusciti a trovare macchine per l’ultima parte del viaggio con destinazione Nagarkot, un villaggetto a 32 km a est di Kathmandu.

Il sole è tramontato ormai da un po’ e ora comincia a piovere, ma siamo tranquilli e sicuri perché abbiamo già prenotato il posto dove dormire: ci immaginiamo già le nostre stanze calde di un ostello che ci aspettano per goderci l’alba il mattino dopo.

Ovviamente non andrà come ci immaginiamo.

Arrivati nella zona di Nagarkot, sotto la pioggia battente, il nostro tassista non conosce il nostro ostello. Siamo in un villaggio a più di 2.000 m slm dove non ci sono particolari attrazioni turistiche, se non la maestosa vista sulla catena himalayana (scusate se è poco).

Indovinate un po’ a chi è venuta la geniale idea di andare a ficcarsi in un posto del genere (per di più senza affidarsi ai bus)? Già, eccomi qui. Come ogni posto poco assaltato dalla massa, gli alberghi/ostelli presenti si contano sulle dita di una mano; così il tassista decide di cominciare a girare per le quattro strade del villaggio in cerca dell’insegna recante il nome di quello che sarebbe stato il nostro tetto per la notte.

Ad un tratto gli occhi del povero nepalese, ormai in pieno esaurimento, si riempiono di gioia: ci porta davanti ad un albergo da mille e una notte costringendoci ad entrare nonostante noi siamo convinti che si tratti di un caso di omonimia.

Ci dividiamo: alcuni entrano e altri restano in macchina per evitare che il furbetto scappi. Siamo entrati nella hall elegante addobbata di fiori e soprammobili fradici e infreddoliti. In pantaloncini e maglietta, ci avviciniamo alla reception – come se ci fosse bisogno di conferme che siamo nel posto sbagliato – e, dopo l’imbarazzo iniziale negli occhi della ragazza, usciamo ringraziando.

Appurato che la nostra ricerca non si è conclusa, continuiamo la ricognizione.

Dopo diversi giri del villaggio scoviamo finalmente il posto giusto, prendiamo gli zaini e salutiamo il tassista a cui non pare vero di essersi liberato di noi.

Il ragazzo dell’ostello ci fa vedere le stanze e sulla porta di una di queste c’è un bel ragno grosso grosso, ormai siamo abituati e con naturalezza impugno il poster arrotolato che avevo comprato qualche ora prima e carico il colpo (come la più comune delle occidentali che non vuole dividere il letto con quelle bestiole).

Proprio quando sto per spiattellare il ragno sulla porta, il ragazzo nepalese mi ferma, prende in mano l’animale e lo accarezza. Intanto che coccolava la piccola creatura, mi spiega cosa succede se si uccidono i ragni: era fiero di non avermi fatto perdere anni di vita.

Sul tetto della struttura c’erano degli altri ragazzi che chiacchieravano intorno a delle birre, così ci uniamo a loro fino a che non ci ricordiamo che siamo li per vedere l’alba e così andiamo tutti a riposarci.

Le sorprese non sono finite e scopriamo che i posti letto effettivi sono meno rispetto a quanti siamo noi, così mi sdraio sul pavimento indossando tutti i vestiti che ho nello zaino perché non c’erano coperte a sufficienza e nemmeno il riscaldamento. Passo le poche ore che ci separano dall’alba rannicchiata sotto al copri zaino impermeabile che tratteneva un po’ di calore con i piedi infilati dentro lo zaino vuoto.

Alle prime luci del mattino raggiungo il tetto della struttura, piazzo la GoPro e mi godo un panorama bellissimo: tanto verde che ricopre incredibili vallate al cospetto di sua Maestà Everest con il sole che timido si affaccia.

Sono stanca ma rimango davvero incantata da quella vista.

Penso ai fortunati alpinisti che hanno faticato per anni e alla fine hanno coronato il sogno di salire sul tetto del mondo, mi immagino gli sherpa che sono abituati a salire e scendere quell’enorme montagna e infine con un po’ di risentimento mi vengono in mente tutti quei turisti che si cimentano in una impresa simile solo per nutrire il loro ego senza pensare che forse bisognerebbe rispettare un po’ di più questa montagna.

Camminando per le strade di Kathmandu spesso ci si imbatte in moltissime agenzie viaggi che ti propongono la gita al campo base dell’Everest e sono quasi certa che con alcune di loro si possa anche puntare alla vetta. È impressionante come sia diventata ormai una attrazione turistica a tutti gli effetti.

Ma torniamo a noi… Con il passare del tempo si alzano anche le nuvole e in un’oretta rimaniamo intrappolati in un’onda bianca che ha risalito le vallate. Della magnifica vista di prima rimane solo il ricordo, non mi resta che scendere in camera e rifare lo zaino.

Con i miei compagni di viaggio ci incamminiamo per le viette di quel villaggio stranissimo. Ci imbattiamo in pochissimi negozi e alcune bancarelle con vari oggetti prodotti a mano.

Troviamo un posto per la colazione e poi ci tuffiamo in mezzo a tutto quel verde che ci circonda. Ci perdiamo per qualche sentiero che parte dagli angoli delle strade.

Capiamo presto però che la strada per tornare alla base potrebbe essere lunga e così ci mettiamo all’uscita del villaggio con il pollice alzato in cerca di un passaggio. La strada è poco frequentata e, dopo qualche ora di attesa, riuscire a fare autostop ci sembra impossibile. Chiediamo in giro e scopriamo che dopo un pochino di attesa sarebbe arrivato un bus che ci avrebbe portati direttamente a Katmandu. Così ci rassegniamo all’idea che dobbiamo prendere quel banale e noioso bus pagando una piccolissima somma per tornare in città.